Microaree, la salute costruita nella comunità
Microaree, la salute costruita nella comunità
Microaree, la salute costruita nella comunità
2 febbraio 2012

Sono le storie, i racconti di vita, i percorsi di salute al di fuori degli ospedali, la presa in carico delle persone, la messa in rete dei servizi (Comune, Ater, cooperative sociali, associazioni) a fare delle microaree dell'Azienda sanitaria un'esperienza unica per la sanità triestina. Un modello nuovo di fare salute di comunità, un luogo dove si costruiscono percorsi di benessere su misura ascoltando i bisogni delle persone. Nate nel 1998 per ampliare sul territorio, al fianco dei distretti sanitari, le buone pratiche sociosanitarie e promuovere la tutela dei diritti della cittadinanza, le microaree si estendono da Cittavecchia fino alle periferie della città. Sono animate dalle storie degli abitanti dei rioni, alcune delle quali sono state raccolte in 11 volumetti presentati nel corso del progetto "Fare salute", laboratorio di formazione e ricerca sul lavoro dei distretti e delle microaree organizzato dall'Enaip Fvg e dall'Azienda sanitaria. A raccontarle gli operatori delle microaree attraverso alcune parole chiave come strumento di interpretazione del lavoro svolto quotidianamente. Nelle attività di ogni giorno operatori e persone seguite si mettono in gioco, ed ecco che bisogna sapere gestire il rifiuto, come quello di Gabriella che viveva da sola in una fatiscente casa di pochi metri quadrati, ma non voleva essere aiutata. «Persone così - racconta Federica Sardiello, referente della microarea del Vaticano a San Giacomo - non sono rare da trovare». Ma occorre anche mettere in relazione i vari servizi, evitare che le persone vengano ospedalizzate: «Vogliamo mantenere le persone anche se disabili o anziane non autosufficienti al loro domicilio», spiega Cristina Montesi, medico del terzo Distretto: «La casa diventa il luogo della propria autonomia dove si mette in gioco lo sforzo di tutti. Nelle microaree lo sguardo cambia perché la presa in carico della persona in maniera partecipata è possibile». Se nei rioni vivono soprattutto anziani, a fare riferimento alle microaree sono perlopiù persone che hanno oltre 65 anni, vivono nella quasi metà dei casi da sole, hanno un reddito che non supera i 13mila euro e molto spesso soffrono di patologie più o meno gravi: il rischio di ospedalizzazione per questi soggetti è molto alto. «Lavorare sul territorio non è un ragionamento automatico - sottolinea Maria Grazia Cogliati, responsabile del Distretto 2. C'è chi ancora individua nell'ospedale l'intervento sanitario più importante. Invece abbiamo sperimentato un modo di lavorare che è un patrimonio che non va disperso. Nelle microaree c'è un occhio che indaga, c'è integrazione tra servizi, cittadini, scuole, parrocchie, tutto ciò che abita sul territorio. È questo che fa lo spirito della medicina di comunità». Ivana Gherbaz

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